A 20 anni dall’attacco alle Torri Gemelle una mia analisi per capire errori e prospettive degli USA.
Cronistoria del conflitto
Era il 7 ottobre del 2001. All’indomani degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle e al Pentagono, gli Stati Uniti di George W. Bush dovevano negare ad Osama Bin Laden una piattaforma operativa in Afganistan, rimuovendo i Talebani al potere. I bombardamenti della base aerea di Bagram, a nord di Kabul, segnano l’inizio di una guerra che vedrà per la prima volta la NATO reagire compatta all’aggressione di un suo stato membro. L’operazione militare Enduring Freedom porta in poco tempo alla caduta del regime Talebano e a dicembre 2001 si svolge la prima conferenza internazionale per l’Afghanistan. Prende vita la missione NATO “ISAF”, con l’obiettivo di mettere in sicurezza l’Aghanistan tramite l’addestramento e il supporto fornito alle forze di sicurezza nazionale afghane. L’obiettivo della comunità internazionale è quello di costruire un governo di transizione a Kabul. È così che, il 9 ottobre del 2004, si tengono le prime elezioni presidenziali democratiche ed Hamid Karzai presta giuramento come nuovo Presidente dell’Afghanistan.
La transizione sembra cosa fatta ma la caccia ad Osama Bin Laden dura per altri 7 anni e i Talebani non smettono certo di far sentire la propria voce. È il 2 maggio del 2011 quando le forza speciali USA uccidono Bin Laden in Pakistan. In quel momento ci sono 140.000 soldati (di cui 100.000 Americani) schierati in Afghanistan. La missione continua. Dal 2012 i Talebani lanciano un’offensiva contro le ambasciate occidentali, il quartier generale della NATO ed il Palazzo del Parlamento. Nel 2015, un anno dopo la fine della missione NATO, i Talebani iniziano a riconquistare terreno. Prima della controffensiva talebana c’era stato l’annuncio di Barack Obama sul ritiro imminente delle truppe USA da Kabul. Non sarà ancora così, in assenza delle condizioni adeguate.
Ci prova di nuovo Donald Trump. Il 29 febbraio 2020, dopo quasi due anni di trattative, gli Stati Uniti firmano a Doha un accordo bilaterale con i Talebani, che sancisce il completo ritiro dei soldati stranieri in cambio dell’assicurazione che l’Afghanistan non avrebbe più rappresentato la piattaforma per il terrorismo internazionale e della promessa di iniziare un dialogo con i politici afghani. Secondo molti analisti e buona parte del Congresso è un accordo troppo sbilanciato, che nemmeno Biden ha avuto il coraggio di ridiscutere. Troppo forte la volontà di rispettare l’impegno preso con i suoi elettori e di abbandonare l’Afghanistan dopo migliaia di vittime, un’enormità di soldi spesi e venti anni di conflitto.
Il 14 aprile 2021 l’amministrazione USA annuncia il ritiro delle truppe statunitensi, che avrà la sua conclusione il 31 agosto. Nonostante le pressioni interne ed esterne, Biden respinge con forza le richieste di rimanere per garantire una soluzione pacifica al conflitto interno. A questo punto i Talebani guadagnano velocemente terreno ed in 6 settimane entrano a Kabul. È la fine della guerra più lunga per gli Americani. L’operazione militare, nata per sradicare il regime talebano da Kabul ed instaurare un governo di transizione, ha portato infine ad un epilogo drammatico: il ritorno del Jihadismo.
Cosa è andato storto?
Gli attentati terroristici dell’11 settembre hanno sancito il passaggio dalla dottrina della deterrenza come mezzo primario di autodifesa alla cosiddetta “Dottrina Bush”, che si propone di “esportare democrazia, libertà e sicurezza in tutte le nazioni che supportano il terrorismo”. Nonostante oggi diversi analisti e membri del Congresso sostengano che la guerra in Afghanistan non mirasse ad instaurare un governo di transizione, è evidente come l’allora amministrazione Bush volesse plasmare il mondo “a propria immagine e somiglianza”. Nel caso specifico sostituire governi dittatoriali con democrazie attraverso l’uso della forza. Ciò significava trasformare l’Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale. Ad esattamente 20 anni di distanza dall’inizio della “Guerra al Terrore”, l’obiettivo non è stato raggiunto. Anzi. I Talebani sono tornati al potere e il terrorismo ha ripreso vigore. Ma cosa è andato storto?
Nel rispondere a questa domanda è utile e interessante riportare il parere di Henry Kissinger, che recentemente ha commentato il fallimento dell’America e della sua exit strategy. Secondo l’ex Segretario di Stato, trapiantare la democrazia “non poteva prevedere un calendario certo, conciliabile con i processi politici americani”. Esportare una “forma di governo inconsueta” come la democrazia in un Paese con storia, cultura e condizioni nazionali completamente diversi è praticamente impossibile. Recentemente Henry Kissinger e Condoleezza Rice hanno dichiarato che 20 anni non sono stati sufficienti per trasformare un regime retrogrado in una democrazia in grado di proteggersi da sola. Ecco, il problema non è tanto il tempo ma piuttosto un altro: non possiamo pensare di applicare parametri occidentali a contesti che occidentali non sono. La democrazia si è dimostrata antitetica al sistema politico-sociale afghano.
Questo perché l’Afghanistan non è mai stato un “Paese moderno”. Elementi come la sovranità e l’accentramento democratico di potere si scontrano con le svariate componenti tribali, etniche e religiose, che nel corso degli anni hanno reso il territorio afghano particolarmente appetibile come base terroristica e quasi “inespugnabile”. Lo dimostrano la ritirata degli inglesi nel 1842 e la ritirata dei sovietici nel 1989. Ogni volta che una potenza straniera ha provato ad imporre un disegno fondato su centralizzazione e coesione l’esito è stato fallimentare.
Perché l’esercito afghano è collassato così rapidamente?
Per quanto ampiamente attesa, la riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani è avvenuta con grande rapidità e ha spiazzato completamente l’intelligence americana, che a giugno aveva stimato ci sarebbe voluto ancora un anno e mezzo di guerra. Sulla carta, l’esercito afghano poteva contare su circa 350.000 soldati (numero di gran lunga superiore alle forze talebane, stimate tra i 50.000 e i 100.000 uomini) e su un consistente arsenale costituito da aviazione, droni e altre armi sofisticate fornite dagli Stati Uniti. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che i soldati afghani avevano potuto usufruire di 20 anni di addestramento militare.
Il rapido collasso dell’esercito è in parte da ricondurre a ragioni strutturali. Dopo vent’anni dall’inizio della guerra gli Stati Uniti (e più in generale la NATO) non sono riusciti a trasformare l’esercito in una forza pronta a combattere. Il ritiro americano ha fatto il resto, mostrando come, senza il supporto militare e logistico degli Stati Uniti, l’esercito afghano non fosse in grado di fronteggiare la potenza di fuoco (modesta, a dire il vero) dei Talebani. La decisione di abbandonare Kabul da parte di Biden ha demoralizzato i soldati afghani spingendoli a credere che senza Washington la vittoria dei Talebani sarebbe stata inevitabile. Pochissimi soldati si sono rivelati disponibili a combattere e morire per il governo afghano, incapace di elaborare strategie e di riunire le varie componenti etniche e tribali sotto un’unica bandiera.
Sembra inoltre che i numeri dell’esercito (350.000) non fossero veritieri e che fossero gonfiati dal governo e dai comandanti locali, che miravano ad intascare i salari dei soldati che avevano disertato o abbandonato.
Prospettive e nuove sfide, quali lezioni?
Secondo alcune stime, nel corso di questi vent’anni le vittime tra le fila dell’esercito statunitense sono state 2.448; i mercenari USA deceduti sono stati 3.846; le vittime degli altri partner NATO sono state 1.144. E poi il costo finanziario. Stando a uno studio della Brown University, gli Stati Uniti hanno speso circa 300 milioni al giorno, che per una durata di 20 anni portano il costo complessivo a circa 2.300 miliardi di dollari.
Per Biden era arrivato il momento di chiudere questa endless war e di lasciare la patat bollente dell’Afghanistan a potenze come Cina e Russia. Ma in pochi pensavano ad un ritiro così caotico. I partner europei degli Stati Uniti non hanno nascosto la loro delusione nei confronti di Biden, colpevole di non averli tenuti aggiornati sui dettagli del ritiro. Il contesto afghano ha dimostrato che – anche sotto la guida dei democratici – la politica estera americana è guidata da un unico principio: l’interesse nazionale. Se viene meno, si passa oltre. Nonostante l’opinione contraria del Pentagono, il presidente ha deciso di recuperare risorse importanti e di concentrarle sulla vera priorità dell’agenda americana: la competizione con Cina e Russia. Non solo una competizione tra sistemi economico-militari ma anche tra sistemi politici.
Su questo l’amministrazione americana si è espressa più volte, quando ha parlato di “alleanza tra democrazie” per arginare regimi come Cina e Russia. Dopo il celebre incontro di Ginevra con il presidente Putin, il 10 settembre c’è stata la prima telefonata in 7 mesi tra Biden e Xi Jinping. La discussione tra i due sarebbe stata “franca e ampia” e avrebbe avuto toni tutto sommato concilianti. I nodi della discordia rimangono tuttavia molti: dalle tensioni commerciali, ai diritti umani, all’Afghanistan. La Guerra Fredda non è vicina ad una conclusione.